Investimenti per muovere l’Italia

Confindustria - Rapporti di Previsione

Pubblichiamo di seguito, con link allo studio completo, il Rapporto di Previsione “Investimenti per muovere l’Italia” realizzato dal Centro Studi di Confindustria.

1.Lo scenario internazionale è indebolito: l’aumento delle barriere tariffarie e non tariffarie pesa sulle prospettive degli scambi. Gli ostacoli al libero commercio internazionale non provengono soltanto dalla politica commerciale USA, ma interessano la maggior parte dei paesi: nei primi otto mesi del 2025 le misure protezionistiche varate nel mondo sono ai massimi. Gli scambi globali hanno accelerato nel 1° trimestre 2025 per il cosiddetto frontloading delle vendite negli Stati Uniti, cioè l’anticipo delle tariffe poi introdotte in aprile sulla quasi totalità delle merci in entrata; viceversa, nel 2° trimestre si è avuta una brusca correzione al ribasso. Nello scenario del Centro Studi Confindustria (CSC), il commercio mondiale crescerà in media del +2,8% nel 2025, ma poi frenerà al +1,2% nel 2026 (Tabella A): rispetto al rapporto di aprile, la dinamica è rivista al rialzo nell’anno in corso proprio per l’effetto meccanico del frontloading a inizio anno, ma molto al ribasso nel prossimo. Restano, inoltre, significativi rischi sfavorevoli, legati soprattutto a un eventuale inasprimento della contrapposizione economica e politica tra grandi blocchi di paesi a livello mondiale.

Un freno alla crescita mondiale viene anche dall’incertezza che resta su livelli elevatissimi: l’indice di incertezza delle politiche economiche a livello globale ha toccato un picco nell’aprile 2025, scendendo in estate, ma restando su un livello pari a quello registrato nel 2020, durante la pandemia. Il contributo maggiore a tale incertezza proviene proprio dalla politica commerciale degli USA: nonostante il raggiungimento di accordi con i principali partner commerciali americani, che ha contribuito a chiarire la nuova situazione tariffaria con il primo acquirente mondiale, rimane sia il rischio di ulteriori cambiamenti, sia il mancato accordo con alcuni paesi. Tale scenario incerto rende i mercati finanziari più volatili, penalizza le decisioni di investimento, in particolare quelle internazionali, e spinge a riconfigurare le catene di fornitura mondiali.

L’economia più danneggiata dai dazi è proprio quella degli Stati Uniti. Gli indicatori congiunturali sembrano suggerire ancora debolezza nella seconda parte di quest’anno. La politica monetaria è un po’ meno restrittiva, ma il recente taglio dei tassi ufficiali farà sentire i suoi effetti positivi sugli investimenti solo tra qualche trimestre. Inoltre, le aspettative di inflazione suggeriscono un’accelerazione dei prezzi e mettono a rischio ulteriori tagli dei tassi e anche una crescita più robusta dei consumi. Come risultante di tali fattori, si ipotizza che l’economia statunitense mantenga un ritmo di crescita molto più moderato di quello del 2024, per recuperare un po’ di slancio solo a fine 2026. Nello scenario del CSC la crescita del PIL è attesa in frenata al +1,7% nel 2025 e +1,6% nel 2026, dal +2,8% nel 2024. Viene rivista al ribasso nonostante il rimbalzo superiore alle attese nel 2° trimestre 2025, dopo il calo a inizio anno, un’altalena da attribuirsi all’introduzione dei dazi.

Nonostante il deterioramento del contesto internazionale a causa delle politiche protezionistiche, le economie emergenti continueranno a vantare ritmi di crescita sostenuti, in aggregato al +4,1% per il 2025 e +4,2% nel 2026, seppur in ribasso rispetto alle previsioni CSC di aprile. Questo è il risultato di una riconfigurazione negli scambi commerciali e degli investimenti, che si orientano sempre più verso il baricentro asiatico, trainato principalmente dalla Cina (che continua a espandersi a ritmi vicini al +5,0%) e anche dall’India (che registra la crescita maggiore tra i primi 20 emergenti). La Russia, colpita dalle sanzioni occidentali ma sostenuta dal rafforzamento delle relazioni economiche con Pechino, è attesa stabilizzarsi su ritmi di crescita più moderati, ma in ogni caso positivi. In generale nei paesi emergenti prosegue il calo dell’inflazione, sono sotto pressione i tassi di cambio di diversi paesi, peggiorano i saldi commerciali, le politiche fiscali restano espansive.

I dazi USA verso il resto del mondo stanno ridisegnando la geografia degli scambi globali, in particolare quelli con l’Europa. Il nuovo regime tra le due sponde dell’Atlantico ha acquistato connotazioni abbastanza definite: tariffe azzerate sugli acquisti UE di prodotti industriali USA; dazi al 15% su gran parte dell’import USA dalla UE (compresi auto, farmaci non generici, semiconduttori); tariffe USA nulle o quasi su altri prodotti UE in settori strategici (aerei, farmaci generici, alcune risorse naturali); restano i dazi al 50% su acciaio e alluminio. L’accordo include impegni da parte europea di esito incerto, perché investono ambiti di competenza delle autorità nazionali e anche delle imprese private: acquisto dagli Stati Uniti di beni energetici, chip IA e attrezzature militari; investimenti diretti in settori strategici USA. Questi dazi, insieme all’euro forte sul dollaro (che essi stessi hanno determinato), penalizzano molto la competitività di prezzo dei beni europei negli USA, soprattutto rispetto alle produzioni domestiche americane, e anche nel resto del mondo. Dopo il frontloading pre-dazi, l’import USA dalla UE è caduto del -8,7% annuo in giugno-luglio; quello dalla Cina del -39,9% (in linea con il peso delle entrate tariffarie per paese di origine). Nel lungo periodo, è forte l’incentivo a rilocalizzare alcune produzioni nel mercato USA: il rischio per l’industria europea è quello di perdere parti vitali del tessuto produttivo.

2. L’economia europea risente del peggiorato scenario globale: la crescita del PIL dell’Eurozona nell’orizzonte previsivo è inferiore a quella americana, arrivando al +1,2% nel 2025 e al +1,1% nel 2026. Per il 2025 si tratta comunque di un’accelerazione dopo il +0,9% del 2024, ma è spiegata soprattutto dalla decisa espansione nel 1° trimestre, drogata dal dato anomalo relativo all’Irlanda. Nell’Area, gli investimenti sono stati finora molto volatili, mentre i consumi sono più stabili ma su ritmi deboli. Le esportazioni nette hanno beneficiato dell’effetto frontloading a inizio anno, ma poi hanno sofferto il rimbalzo negativo in primavera. Questo andamento altalenante si è riflesso anche sui dati relativi all’industria europea, che nel complesso ha registrato dei segnali positivi ma in gran parte per soddisfare a inizio 2025 la domanda proveniente dagli USA per anticipare i dazi. E senza aver risolto le difficoltà strutturali, come lo svantaggio sui costi energetici rispetto agli USA. In prospettiva, gli indicatori congiunturali non promettono una ripartenza solida dell’economia europea. L’andamento nel prossimo futuro è legato all’attesa ripartenza degli investimenti, che ancora non hanno preso una direzione chiara e che potrebbero beneficiare nel 2026 dei minori tassi e del traino di settori in crescita, come la difesa.

Cruciale sarà la traiettoria su cui riuscirà a posizionarsi la prima economia dell’Area. Dopo due anni di lieve recessione nel 2023-2024, il PIL della Germania ha registrato un 1° semestre 2025 sostanzialmente piatto. In particolare, il calo nel 2° trimestre non è dovuto solo all’effetto di frontloading su export e import, visto che sono nuovamente scesi anche gli investimenti. L’economia tedesca, dunque, non è ancora uscita dalla crisi, ma grazie agli effetti positivi delle recenti riforme è attesa rafforzarsi progressivamente, per tornare a crescere dal 2026 a tassi sopra il +1,0%. Infatti, il Governo di recente ha approvato un emendamento costituzionale al “freno all’indebitamento” e varato un programma di riforme strutturali per facilitare gli investimenti in infrastrutture e le spese per la difesa. È stato, inoltre, creato un fondo di 500 miliardi di euro per 12 anni, anch’esso escluso dal freno al debito, per migliorare le infrastrutture tedesche, tra cui ferrovie, strade, ospedali. Nel corso dell’estate si sono incominciati a vedere segnali di una ripresa, seppur lenta, in numerosi indicatori, compresa la produzione industriale. Il consolidamento di questi segnali dipenderà dai tempi e modi in cui il Governo tedesco riuscirà a implementare il massiccio piano di investimenti.

Intanto, la BCE ha completato il taglio dei tassi: a settembre 2025 li ha tenuti fermi al 2,00%, dopo un rapido percorso di otto tagli di un quarto di punto ciascuno da giugno 2024 a giugno 2025, partendo da un picco del 4,00%: l’allentamento monetario nell’Eurozona è stato pari a -2,00 punti. La BCE può contare su un’inflazione stabile negli ultimi mesi, vicino all’obiettivo del +2,0% e anche le aspettative di inflazione nell’Area sono stabili, sebbene restino numerosi rischi nello scenario, in particolare sui prezzi delle commodity. La stance monetaria, grazie ai tagli, non è più restrittiva e le condizioni di finanziamento sul canale bancario sono divenute più favorevoli. Nel complesso, dai documenti ufficiali BCE si ricava il messaggio che in assenza di altri shock, la correzione di politica monetaria è sufficiente per il momento. Le attese dei mercati finanziari sono coerenti con tassi fermi nell’orizzonte di previsione. Perciò, lo scenario CSC ipotizza che non ci saranno ulteriori tagli dei tassi, anche se resta una probabilità positiva che la BCE decida, invece, di riprendere nei prossimi mesi il percorso dei tagli, per sostenere la debole crescita europea.

Riguardo al costo dell’energia, le notizie sono in parte positive. Il prezzo del petrolio Brent registra un trend di lieve calo, pur con significative oscillazioni che riflettono l’alternarsi di notizie sulle guerre in Ucraina e Medio-Oriente. I valori recenti sono in linea con quelli storici di equilibrio per il mercato mondiale (60-70 dollari), a conclusione della lunga fase di aggiustamento del mercato fisico dopo il 2022. L’ipotesi prudente dello scenario CSC è che il Brent scenda in media a 67 dollari nel 2025 (da 81 nel 2024) e a 62 nel 2026. Anche il prezzo del gas in Europa è sceso, ma meno: 32 euro/mwh nell’agosto 2025, rispetto al massimo di 50 euro toccato a febbraio. I timori di scarsità sui volumi di gas restano moderati e i mercati si aspettano ora il permanere dei prezzi vicino ai valori attuali. Tuttavia, le quotazioni del gas europeo restano molto alte rispetto ai livelli pre-pandemia (14 euro nel 2019), a causa della transizione attuata in Europa dal 2022 e ormai completata, verso il gas naturale liquefatto (GNL), più costoso, e verso paesi fornitori alternativi alla Russia, politicamente instabili. Il prezzo in Europa resta, inoltre, molto più alto di quello negli USA, circa tre volte in più, visto che la quotazione sul mercato americano è tenuta bassa dal boom dell’estrazione di shale gas.

Per l’Europa, la conclusione di accordi commerciali costituisce uno strumento essenziale per contrastare la frammentazione degli scambi internazionali. Il trattato di libero scambio tra UE e Mercosur è arrivato a conclusione, in attesa della ratifica politica. L’accordo rappresenta una liberalizzazione tariffaria asimmetrica: l’UE concede un accesso ai beni agricoli sudamericani contenuto e legato alle norme di sicurezza alimentare, mentre ottiene un’ampia apertura nei settori industriali e dei servizi. Il Mercosur (in particolare Brasile e Argentina) svolge anche un ruolo cruciale come fornitore all’Europa di materie prime critiche, fondamentali per la realizzazione della transizione digitale ed energetica. L’area di libero scambio che si verrà a creare sarà formata da più di 700 milioni di persone, che producono circa un quinto del PIL globale: quasi il 40% in più in termini di popolazione rispetto all’USMCA (Stati Uniti, Messico e Canada), il 10% in meno in termini di PIL. Tutto questo favorirà un’espansione significativa delle esportazioni UE, rafforzando anche i legami produttivi già presenti. Sono perciò attese in recupero le quote di mercato nei paesi del Mercosur da parte dei paesi UE, da poco superati dalla Cina come primo partner commerciale. Oggi i primi due paesi europei per quota di mercato nel Mercosur sono la Germania e l’Italia, soprattutto come fornitori di beni strumentali. Questi due paesi sono le economie europee maggiormente beneficiarie dell’abbattimento dei dazi con il Mercosur, poiché presentano una specializzazione merceologica nei settori in cui la riduzione delle aliquote tariffarie sarà più forte.

3. Penalizzata dal difficile contesto globale ed europeo, la crescita in Italia resterà bassa nell’orizzonte di previsione (Tabella B): secondo lo scenario CSC, si avrà un incremento annuo del PIL pari ad appena il +0,5% nel 2025, inferiore di 0,1 punti a quanto previsto nello scenario di aprile. La crescita italiana è attesa accelerare di poco nel 2026, a +0,7%, tornando sui ritmi del 2024. La dinamica annua dell’economia è frenata in particolare dalla battuta d’arresto nel 2° trimestre 2025, quando il PIL italiano è diminuito di 0,1%, a causa della caduta delle esportazioni. La debole dinamica del PIL, sia nella media del 2025 che nel 2026, sarà sostenuta prevalentemente dagli investimenti, in minor misura dai consumi delle famiglie, mentre contribuiranno negativamente le esportazioni nette.

La componente più debole della domanda in Italia sono le esportazioni. Nello scenario CSC, la crescita dell’export di beni e servizi, già molto debole nel 2023-2024, si attesterà su ritmi vicini allo zero nel 2025-2026; in particolare, le vendite di beni sono previste in calo. Le importazioni, invece, saranno in aumento e di conseguenza l’export netto offrirà un contributo molto negativo alla variazione del PIL. Il profilo dell’export è rivisto significativamente al ribasso rispetto al rapporto di aprile, a causa del balzo delle barriere tariffarie USA sui prodotti europei e dell’inasprirsi delle tensioni geopolitiche mondiali. L’export di beni, inoltre, perde terreno anche rispetto al commercio mondiale, perché è ancora debole la domanda in Europa (principale destinazione dei prodotti italiani) e perché l’euro forte penalizza la competitività dei prodotti di tutta l’Eurozona. Le prospettive non sono buone, visto che l’attività industriale europea è attesa risalire solo gradualmente e i freni protezionistici e geopolitici appaiono duraturi. In positivo, la ratifica dell’accordo UE-Mercosur aprirebbe importanti mercati di sbocco, a parziale compensazione delle barriere sul mercato USA.

Viceversa, la componente di domanda più robusta in Italia sono gli investimenti fissi. Dopo il rallentamento nel 2024 (+0,5%), la loro dinamica è tornata a rafforzarsi tra fine anno scorso e prima metà del 2025. Sono attesi rimanere in espansione nella seconda parte di quest’anno (+3,0% in media) e rallentare il prossimo (+1,9%). Oltre che giovarsi della politica monetaria non più restrittiva, che avrà un impatto attenuato l’anno prossimo, gli investimenti sono stati stimolati efficacemente dagli incentivi fiscali. Quelli in costruzioni residenziali, caduti nel 2024 ma in ripresa quest’anno, sono sostenuti da Ecobonus e Bonus Ristrutturazioni, pur depotenziati rispetto al passato; quelli in macchinari e attrezzature e intangibili, da Transizione 4.0 e, dopo le ultime semplificazioni, anche da Transizione 5.0; il PNRR sta trainando gli investimenti in fabbricati non residenziali, un traino che si affievolirà nel 2026 per il termine a metà anno del Piano.

I consumi delle famiglie italiane hanno frenato nella prima metà del 2025, in particolare la domanda di beni, mentre la spesa per servizi è cresciuta a ritmi moderati. Nello scenario previsivo del CSC, i consumi sono attesi avere una crescita modesta anche nei prossimi trimestri, arrivando a +0,5% nella media del 2025 e a +0,7% nel 2026. La causa principale di tale dinamica debole è l’alta propensione al risparmio, causata dall’anomala incertezza, che quest’anno frena l’effetto positivo dell’espansione del reddito delle famiglie; per il prossimo anno, il modesto calo ipotizzato per il tasso di risparmio lascia, invece, un po’ di spazio all’espansione dei consumi. Le famiglie, dunque, mostrano abitudini di consumo e risparmio strutturalmente più caute, dati gli elevati rischi dello scenario e perché fanno ancora i conti con i rincari degli ultimi anni, visto che il livello dei prezzi è rimasto più alto in modo permanente. Un altro cambiamento nelle abitudini delle famiglie italiane è l’alta propensione ad investire, che si riferisce alle spese per ristrutturazioni edilizie: è scesa solo di poco rispetto ai picchi toccati con il Superbonus. I motivi sono vari: le famiglie hanno familiarizzato con lo strumento fiscale delle detrazioni; nel clima di incertezza, la casa è divenuta ancor più il “bene rifugio” e le ristrutturazioni consolidano il valore del patrimonio immobiliare; il boom degli affitti brevi, per fini turistici specie nelle grandi città, incentiva l’investimento in ristrutturazioni di seconde case.

4. Dal lato dell’offerta, l’industria italiana, dopo la buona ripartenza del 1° trimestre 2025 in termini di produzione, ha rallentato già nel 2°. Questi dati appena positivi vengono dopo il forte calo della produzione nel 2023-2024, che ha riportato l’industria sotto i livelli pre-pandemia. Nel 2025, il clima di forte incertezza pervade anche gli indicatori congiunturali, che danno segnali misti, tra i quali si coglie una marginale risalita degli ordini dall’interno delle imprese manifatturiere e il PMI tornato finalmente in zona espansiva. Segnali di lenta e parziale ripresa arrivano dal settore automotive, comparto chiave della manifattura italiana, che mostra un’inversione di tendenza (al rialzo) della produzione da inizio 2025, pur insufficiente a colmare il crollo del biennio precedente. Nello scenario del CSC, elaborato in termini di valore aggiunto, l’industria è prevista recuperare nel 2025 (+1,0%), ma rallentare il prossimo anno (+0,4%), quando si esauriranno gli effetti degli incentivi agli investimenti e si attenuerà l’impatto positivo dei minori tassi.

Nella prima metà del 2025, il valore aggiunto totale in Italia è cresciuto grazie soprattutto al buon andamento delle costruzioni. Infatti, quelle di tipo abitativo, che avevano risentito fortemente nel 2024 della riduzione degli incentivi, tra la fine dello scorso anno e la prima metà del 2025 hanno registrato un’inversione di tendenza al rialzo. Quelle di tipo non abitativo sono in forte espansione già da due anni e dovrebbero continuare a beneficiare delle risorse del PNRR e di prestiti bancari meno onerosi. Il valore aggiunto complessivo del settore delle costruzioni registrerà un ulteriore miglioramento nella seconda metà di quest’anno, crescendo in media del +3,1% nel 2025, per poi rallentare a +1,4% nel 2026.

Il settore dei servizi privati, invece, è rimasto praticamente fermo nella prima metà del 2025. Le informazioni congiunturali più recenti, relative al 3° trimestre, non indicano ancora una ripresa significativa del settore, sebbene le presenze turistiche in Italia siano in aumento del +4,6% annuo a luglio e la fiducia delle imprese operanti nei servizi si sia rafforzata. Il valore aggiunto dei servizi, perciò, dovrebbe mantenere un passo lento di crescita nella seconda metà del 2025 e a inizio 2026, per poi acquisire slancio nella seconda metà del prossimo anno, grazie alla minore incertezza e quindi alla minore propensione al risparmio, all’effetto ritardato dell’aumento del reddito disponibile reale e ai tassi più favorevoli sul credito al consumo. Nello scenario CSC, il valore aggiunto del settore crescerebbe in misura marginale nel 2025 e in modo più robusto nel 2026 (+0,6%).

Nel 2025 l’occupazione continua a crescere più del PIL (+0,9% le ULA, già largamente acquisito al 2° trimestre), ma rallenterà nel 2026 (+0,5%), favorendo un primo recupero della produttività del lavoro. L’industria in senso stretto, dopo un fenomeno di “occupazione senza crescita” durante la crisi energetica e fino alla prima metà del 2025, è il settore dove la produttività del lavoro risulta più compressa (-4,7% il valore aggiunto per ora lavorata nel 2° trimestre 2025 rispetto al 4° 2019). Nelle previsioni del Centro Studi Confindustria, il debole avanzamento dell’attività industriale atteso nella seconda parte dell’anno sarà tuttavia accompagnato da una sostanziale stabilità dell’input di lavoro, che crescerà a ritmo più moderato del valore aggiunto anche nel 2026. Il comparto edile, in netta contrapposizione rispetto a quello industriale, si contraddistingue per ampi guadagni di produttività del lavoro rispetto al pre-pandemia, previsti rimanere su livelli elevati nello scenario previsivo.

La prolungata e ampia ripresa occupazionale post-pandemia ha ridotto il tasso di disoccupazione dal 10,2% di aprile 2021 al 5,9% di luglio 2025, minimo dal 2007; il tasso è atteso al 6,0% in media nel 2025 e al 5,8% nel 2026.

La dinamica delle retribuzioni di fatto pro-capite nell’intera economia italiana ha accelerato al +2,9% nel 2024 (dal +1,8% nel 2023) e al +3,1% nel 1° semestre 2025, ritmo su cui è prevista rimanere in media quest’anno (+3,2%), per decelerare solo lievemente l’anno prossimo (+2,7%). Grazie a una dinamica retributiva che rimarrà sopra all’inflazione, proseguirà il lento recupero delle retribuzioni reali, che avanzeranno del +2,3% cumulato nel biennio 2025-2026. La risalita è iniziata già nel corso del 2023, trainata dal settore privato, dove le retribuzioni reali per ULA nel 2° trimestre 2025 hanno recuperato quasi il 40% dell’ampia perdita di potere di acquisto generata dalla crisi energetica (-5,3% sul 1° 2021, da un minimo di -8,5% nel 4° 2022). Nel settore pubblico, che vale circa un quarto del monte retributivo totale, le retribuzioni reali pro-capite sono scese ancora di più con l’impennata dei prezzi nel 2022 e si attestavano a primavera 2025 su un livello ancora di 9,4 punti percentuali inferiore a quello di partenza.

L’inflazione in Italia è abbastanza stabile, grazie alla flessione dei prezzi energetici che sta compensando l’accelerazione dei prezzi alimentari. In prospettiva, è attesa rimanere intorno ai valori correnti, in media al +1,8% sia quest’anno che nel 2026, ovvero sui livelli su cui si è assestata di recente la core inflation. Questo scenario favorevole è basato su prezzi dell’energia in Europa che proseguono la fase di calo, pur restando ancora elevati, e su un cambio fermo, che implica apprezzamento dell’euro sul dollaro. Come risultato dell’andamento moderato dei prezzi di vendita e del rialzo dei costi, nella manifattura il mark-up delle imprese ha registrato dal 2024 una fase di forte erosione e solo nel 2025 si va stabilizzando. Persiste il differenziale di inflazione con l’Eurozona: nell’Area è più alta rispetto all’Italia di +0,5 punti percentuali; questo differenziale nasce sui prezzi dei servizi e dei beni industriali, per i quali l’inflazione europea è stabilmente superiore. Perciò, in termini di inflazione italiana, il taglio dei tassi di interesse potrebbe essere più profondo.

Il canale del credito è ripartito, con la dinamica annua dei prestiti bancari alle imprese italiane tornata finalmente in territorio positivo negli ultimi mesi (+0,7% a luglio 2025). Ciò grazie alla rapida fase di tagli dei tassi BCE, conclusa a giugno 2025, che ha indotto un allentamento dell’offerta di credito, sotto forma di una riduzione dei tassi pagati dalle imprese: il costo del credito ha incorporato interamente i tagli, con il tasso sulle nuove operazioni al 3,50%, da un picco di 5,59% a novembre 2023, un calo complessivo di oltre 2,0 punti. Questi minori tassi hanno consentito anche la risalita della domanda di credito da parte delle imprese, in particolare delle richieste di credito per finanziare gli investimenti fissi. Nell’orizzonte previsivo, i tassi di interesse sono attesi fermarsi ai livelli correnti, che sono “neutrali”, cioè non più alti come nel 2024, ma nemmeno bassi in prospettiva storica. Perciò, alcune imprese possono ancora incontrare difficoltà in termini di oneri del debito elevati, anche se la dinamica annua dei prestiti alle imprese è attesa irrobustirsi, sostenendo gli investimenti.

Nello scenario del CSC, il deficit pubblico è in calo, sotto la soglia UE del 3,0% del PIL nel 2026, creando le condizioni per l’uscita dalla procedura per disavanzo eccessivo. Il debito, però, continua a salire, a causa della spesa per interessi e degli ulteriori effetti contabili del Superbonus.

5. La crescita anemica del PIL attesa quest’anno e il prossimo rende necessario muovere l’Italia, intervenendo con le leve più efficaci a disposizione, anche sbloccando la ricchezza finanziaria dal parcheggio in depositi bancari improduttivi. All’impatto molto positivo del PNRR, che è già all’opera ma che si concluderà nei primi mesi del prossimo anno, va affiancata una manovra di bilancio che sapientemente prosegua sulla strada dello stimolo agli investimenti produttivi. Gli investimenti sono necessari per rilanciare la crescita del Paese e gli incentivi possono funzionare efficacemente per stimolarli, anche nel Mezzogiorno, come si è visto negli ultimi anni.

L’implementazione del PNRR, che include investimenti pubblici, riforme, incentivi, avrà un impatto molto positivo sulla crescita del PIL nel biennio di previsione: tra 2025 e 2026 le risorse programmate ammontano a circa 130 miliardi. L’ipotesi dello scenario CSC è che venga spesa la metà delle risorse disponibili, circa 65 miliardi; sono inclusi circa 11 miliardi, pari alla metà delle risorse non spese nel 2024, che slittano al 2026. Secondo una simulazione del CSC, l’effetto positivo del PNRR sul PIL è stimato in un +0,8% nel 2025 e un +0,6% nel 2026, rispetto alla variazione nello scenario base (+1,4% cumulato nei due anni). Questo significa che la dinamica del PIL italiano in assenza di PNRR sarebbe di -0,3% nel 2025 e di +0,1% nel 2026 (-0,2% nel biennio): non ci sarebbe crescita, ma una stagnazione.

Le analisi di valutazione ex-post dicono che gli incentivi agli investimenti in beni strumentali 4.0 hanno contribuito all’impennata degli investimenti osservata di recente in Italia. Questa risalita, tuttavia, non è ancora sufficiente al ripristino del capitale netto sui livelli pre-crisi finanziaria del 2008. Investimenti in beni materiali e immateriali a elevato contenuto tecnologico e digitale sono essenziali, dato l’ampio gap che ancora il nostro Paese sconta nelle tecnologie avanzate: la propensione a investire in questi asset è cresciuta in Italia, ma rimane inferiore rispetto a quella in altre economie avanzate. Gli incentivi fiscali agli investimenti 4.0 si concluderanno in larga parte alla fine del 2025: è necessario tornare a disegnare incentivi che siano potenzialmente in grado di far fare il salto necessario all’Italia. Sulla base delle esistenti analisi di valutazione ex-post si stima che, gli incentivi previsti dal Piano Transizione 4.0 erogati tra il 2020 e il 2022 abbiano innalzato il tasso di investimento: più che raddoppiato per le micro-imprese, quasi raddoppiato per le piccole, cresciuto di circa il 35-45% per le medie, del 20-25% per le grandi. Calcoli del CSC indicano che il credito di imposta su investimenti in beni materiali 4.0 nel triennio 2020-2022, stimolando investimenti “aggiuntivi”, ha consentito allo Stato un importante recupero di gettito: la misura, costata 20,3 miliardi, si è ripagata da sola per quasi la metà della spesa (48,6%). Considerando tutte le principali misure di agevolazione fiscale su beni strumentali (al netto dei mezzi di trasporto) e prodotti di proprietà intellettuale (non solo 4.0), tra il 2016 e il 2024 si sarebbero ripagate per circa un quarto (23,5%) delle risorse pubbliche spese (74,6 miliardi).

Un ruolo cruciale per accelerare gli investimenti può avere la ricchezza finanziaria delle famiglie italiane. Questa ricchezza sta crescendo rapidamente e ha raggiunto valori enormi, pari a oltre 6.000 miliardi di euro nel 2024, alimentata in primo luogo dagli elevati risparmi degli ultimi anni. In particolare, i depositi bancari di famiglie in Italia sono arrivati a oltre 1.500 miliardi, circa un quarto del totale. Mobilitare una parte, anche piccola, della ricchezza totale delle famiglie italiane potrebbe liberare ingenti risorse per finanziare nuovi investimenti produttivi nel Paese: per esempio, spostare appena un 1,0% dai depositi verso obbligazioni e azioni emesse da aziende italiane, potrebbe tradursi nel finanziamento di 15 miliardi di nuovi investimenti. Per questo, servono misure di policy ben costruite, che inducano le famiglie e i grandi intermediari finanziari (come i fondi pensione, le società di assicurazione, i fondi comuni) a muovere risorse verso strumenti emessi dalle nostre imprese. Da sottolineare che tali risorse potrebbero essere utilmente impiegate anche per finanziare infrastrutture di interesse nazionale, investimenti in sanità e in istruzione, creando un contesto più favorevole alla crescita.

Dopo decenni di divergenza rispetto al Centro Nord, dal 2020 la crescita del PIL nelle regioni meridionali ha superato quella del resto del Paese: tra il 2020 e il 2023, +7,1% cumulato, più del Nord (+5,1%) e del Centro (+2,8%). Senza il Mezzogiorno, la crescita sarebbe stata più bassa di mezzo punto cumulato in tale periodo. Dal pre-pandemia al 2024, oltre il 40% dell’aumento degli occupati in Italia si è concentrato nel Sud: 355mila, su 823mila. L’export del Mezzogiorno è cresciuto dal 2019 al 2024 di circa il 30% e dal 2022 ha superato la dinamica di quello del Centro Nord. Tutto ciò si deve a vari fattori. Primo, la maggior crescita degli investimenti al Sud, anche grazie al contributo del credito d’imposta ZES per i beni strumentali e nonostante l’orizzonte annuale di finanziamento che rimane un importante elemento di debolezza. Secondo, un contributo molto positivo viene dal PNRR: 60,7 miliardi dedicati al Mezzogiorno, dove sono localizzati 108mila progetti su 298mila (36%); per ottimizzarne l’impatto, è importante risolvere i problemi strutturali dell’area, come una minore velocità di pagamento e i ritardi nella realizzazione delle opere. Terzo, un contributo cruciale viene dalla ZES Unica per il Sud, operativa da agosto 2024, un fattore abilitante per gli investimenti privati che ha consentito importanti semplificazioni: risultano già circa 800 Autorizzazioni Uniche; importante anche lo strumento “Decontribuzione Sud”, che è in attesa di essere rinnovato. Infine, la politica di coesione (nazionale ed europea) rimane uno strumento fondamentale per il Mezzogiorno, anche se è necessario rafforzare la capacità amministrativa di vari territori. Sommando al PNRR le risorse dei Fondi SIE, che assegnano al Sud 48 miliardi, e quelle del FSC che apportano 47 miliardi, si arriva a un totale di circa 177 miliardi su un orizzonte pluriennale.

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Fonte: Centro Studi Confindustria